IL PRESIDE E IL PRESEPE

nativitc3a01Gentile direttore, sono rimasto amareggiato dalla notizia sul divieto posto dal preside di una scuola di Bergamo di rappresentare il presepe. Divieto motivato dal timore che questo possa discriminare i ragazzi appartenenti ad altre culture. Credo che anche chi professi una fede diversa, possa tranquillamente accettare l’idea che il presepe sia un’antica tradizione del nostro popolo che va difesa, tutelata e rispettata. Non possiamo rinnegare il nostro culto, nè tantomeno abbandonare le radici della nostra storia. Significherebbe privarci della memoria che ci appartiene e senza di essa, non avremo neanche un futuro. Si parla tanto di integrazione, di globalizzazione, di commistione di civiltà e costumi e poi si ha paura che un presepe, simbolo di amore e di pace, possa dividere gli uomini. Allora il problema quale è? Anzi di chi è? Forse la paura di “un bambino nella mangiatoia” è degli adulti, di coloro che non sono capaci di inginocchiarsi davanti ai piccoli, ai poveri, agli ultimi.

Cordialità
Paolo Pagliani

Elena dicembre

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LA NAVE CHE AFFONDA

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Caro direttore, leggendo un articolo del 1969 che diceva <<l’Occidente è una nave che affonda dove tutti ignorano la falla e lavorano assiduamente per rendere sempre più comoda la navigazione e dove non si vuol discutere che di problemi immediati… Ma la vera salute non sopraggiunge forse perché si è capaci di scoprire la vera malattia?>>, trovo che si riveli attuale anche per noi oggi. E’ come l’immagine suggestiva di un Titanic speronato e squarciato che procede verso l’affondamento mentre sul ponte si studia come migliorare la piscina o i servizi di bordo o il comfort delle camere. Non ci si preoccupa più di tanto dei problemi veri della nostra esistenza, della società, non cincischiando su questioni marginali. Per guarire da una malattia bisogna avere il coraggio di guardarla in faccia, nella sua gravità e non ricorrendo a rimedi illusori a placebo o ad artificiose sicurezze. Si deve ritornare al rigore, all’autenticità, spogliandosi della fatuità, della rissa politica continua, della superficialità, della banalità. Non è un monito pedante ma il necessario ritorno alla sostanza dei problemi (primo il lavoro), ai valori, alle domande vere e non il galleggiare o il perenne tirare a campare!

Cordialità
Paolo Pagliani 

CE LA FAREMO?

Caro direttore, la gente si chiede se e come l’Italia riuscirà a venir fuori da questa crisi, determinata da tre grandi cambiamenti. La globalizzazione è la prima causa che ha messo i nostri lavoratori in concorrenza con quelli di Paesi poveri quindi la crisi finanziaria mondiale nata negli USA che ci ha portato in recessione, poi l’avvento dell’euro che è stato un cambiamento che avrebbe richiesto l’avvicinamento della nostra economia alla qualità di quelle dei Paesi forti della moneta unica. Ci siamo trovati così deboli tra i forti, senza più avere la chance della svalutazione competitiva per compensare la nostra debolezza. Ora però ce la faremo a percorrere questo sentiero stretto ed angusto? Questo percorso è stato intrapreso con decisione dal governo Monti, spalleggiato da un governatore italiano della BCE, che ha allargato i cordoni del credito alle banche.
Abbiamo iniziato con sacrifici e rigore fiscale per ripristinare la fiducia nella sostenibilità del nostro debito e convincere gli investitori internazionali a comprare i nostri titoli. La situazione è migliorata ma l’ossigeno dalle banche non è ancora arrivato a famiglie ed imprese; gli istituti di credito hanno utilizzato la maggiore liquidità disponibile per ricostituire le loro riserve ed acquistare titoli di Stato. Dalla lotta all’evasione fiscale si prevedono nuove risorse, come dalla revisione accurata dei capitoli di spesa che saranno destinate a riduzioni della tassazione sui redditi delle persone fisiche e delle tasse sul lavoro delle imprese. Nello stesso tempo occorre varare quelle riforme in grado di colmare il gap tra noi e i Paesi più virtuosi come la Germania; sembra l’unica via possibile. Siamo un paese con importanti risorse nascoste come il più alto rapporto tra ricchezza e reddito familiare a livello mondiale ed una delle quote più alte di possesso di prime case (oltre l’ 80%). La componente liquida (non immobilizzata in case) di questa ricchezza, è tre volte il debito pubblico ma pur conoscendo questo, il governo ha deciso di evitare la drastica strategia di una patrimoniale <<forte>> per ridurre il debito, che avrebbe messo in ulteriore difficoltà il paese. La strada intrapresa è l’unica possibile e vista la qualità della nostra attuale classe dirigente, è lecito essere ottimisti. L’esito finale dipende anche dalle forze politiche tradizionali che siedono oggi in panchina e dal loro senso di responsabilità. Coraggio, possiamo farcela!

Un cordiale saluto
Paolo Pagliani

Ecco cosa chiamano sviluppo – COMMERCIO TIRANNO

Caro direttore,
viviamo uno strano mondo grazie alla globalizzazione, nel senso che molte cose che potrebbero esser prodotte sottocasa, vengono dall’altra parte del pianeta; un caso classico è quello delle scarpe sportive. Queste possono aver percorso migliaia di chilometri, dalla Cina, all’Indonesia, alla Romania parlando solo della manifattura, altrimenti le distanze si raddoppiano o triplicano perchè la gomma è estratta in Malaysia, trasferita in Corea per la raffinazione e inviata in Indonesia per l’assemblaggio. Se si considerano tutti gli altri materiali, ci si renderà conto della situazione. Un’altra piccola esperienza interessante può essere vedere camion di acqua in bottiglia, che dal Nord vanno al Sud e viceversa; tutto questo può avere un senso rientrando nella logica del denaro. Sicuramente non ne ha, se si ragiona nell’ottica del buon senso, della gente e del pianeta stesso. La giustificazione che ci viene data è che l’obiettivo da perseguire è la espansione dei mercati e che il commercio è garanzia di ricchezza per tutti. Dovrebbero però spiegarci perchè i paesi del Sud hanno cominciato a impoverirsi proprio quando sono stati catapultati nel commercio internazionale e conoscendo più guerre. Dovrebbero smettere di raccontarci bugie, sforzandosi di convincerci che il loro scopo è il benessere della gente. Il sistema ha a cuore solo l’arricchimento dei mercanti e in particolare di quelli forti. Non a caso questi spostano di continuo la produzione sullo scacchiere mondiale in base alle loro convenienze trattando la gente come straccioni, da usare e gettare. Si rimane in quei posti dove i salari sono miserabili, appena gli operai ottengono miglioramenti, le fabbriche fuggono; esempio da Taiwan nelle Filippine quindi se nascono moti di rivolta, si passa in Cambogia ecc. Purtroppo le imprese continueranno a muoversi finchè non sarà stato raggiunto il fondo dello sfruttamento mettendo i lavoratori a repentaglio continuo. Precarietà permanente: ecco cosa chiamano sviluppo. E’ arrivato il tempo di dire basta ad accordi internazionali per proteggere gli interessi delle grandi imprese (multinazionali). L’umanità ha bisogno di un’Organizzazione mondiale del bene comune, non del commercio, perchè il nostro interesse primario è la salvaguardia degli elementi naturali su cui si basa la nostra esistenza: il clima, l’ acqua, i mari, le foreste, i pesci, il petrolio, i minerali: La natura e la giustizia hanno bisogno di protezione, non di libero arbitrio. Hanno bisogno di regole per disciplinare la pesca, il taglio dei boschi, l’uso e la spartizione delle risorse usando anche leve fiscali!! Non deve essere la natura ad adattarsi alle esigenze del commercio ma l’inverso ripristinando la gerarchia dei valori. Non si vive per commerciare. Si commercia per vivere. Non possiamo più concepire il mercato come il signore della vita; quando ci accorgiamo che diventa un mostro che ci uccide e divora; dobbiamo fermarlo e ridimensionarlo. Deve rimanere uno strumento al nostro servizio.

Buona domenica
Paolo Pagliani

PROBLEMA OCCUPAZIONE

Gentile direttore,
la disoccupazione nel nostro Paese sta assumendo dimensioni allarmanti ma per il sistema non è un problema; anzi sotto certi limiti è un bene perché mantiene bassi i salari. Solo se assume proporzioni che possono danneggiarlo, allora se ne preoccupa e naturalmente per combatterlo propone la stessa ricetta valida per tutti i mali: la crescita. Il ragionamento è semplice, dato che il lavoro è creato dalle imprese che producono per il mercato, per creare nuovi posti di lavoro bisogna ampliare il mercato, ossia il volume degli acquisti. Le cose però da tempo non funzionano più così, in quanto due fenomeni impediscono questa crescita: la tecnologia e la globalizzazione. Grazie ai programmi computerizzati, (primo), ogni macchina è diventata un robot, così l’uomo è messo sempre più da parte, relegato al rango di vigilante di imprese che progettano in Europa e (secondo), fanno produrre nell’Est europeo, Africa o Sud Est asiatico. Per conquistare il mercato una delle strategie principali è la diminuzione dei prezzi e le aziende non fanno sconti, finché non hanno in mente come ridurre i costi; pensa e ripensa è stato deciso che le spese dovevano farle, come al solito, i lavoratori. Governanti ed imprenditori approfittano di ogni occasione per ricordarci che dobbiamo rinunciare al posto fisso e porgere l’orecchio sempre più alla parola flessibilità, che in certi settori avanza, sino ad arrivare a quella tremenda parola che è licenziare. Fino a che punto nessuno sa a quali dimensioni reali assumerà la fuga, anche dal nostro Nord Est super-industrializzato, non solo i settori ad alta manovalanza ma si constata invece che sta coinvolgendo anche quelli più avanzati. E’ urgente inventare nuove strategie, perché è certo che senza la gente non andremo da nessuna parte ma la gente dov’è? Purtroppo la risposta è deludente; siamo tutti appiattiti sull’individualismo, ci siamo rassegnati ma per provocare un grande cambiamento, dobbiamo diventare un movimento visibile, di massa, identificabile con dei principi forti, universali, condivisibili, che accendano speranze, che diano voglia di impegnarsi. Un movimento che sappia coniugare globale e locale, resistenza e desistenza, difesa e riforma, presente e futuro e che si faccia interprete dei bisogni della gente. Un movimento che parta dal lavoro, dalla sicurezza sociale, dalle preoccupazioni di tutti i giorni, per smascherare le logiche di questo sistema e prospettare altri orizzonti. Alcuni recenti fatti dimostrano che qualcosa sta cambiando e allora, rimbocchiamoci le maniche e non fuggiamo via, nonostante la voglia di farlo (per molti giovani), sia ancora tanta.

Cordialmente
Paolo Pagliani
Novellara