Gentile direttore, si assiste giornalmente ad una neolingua politica sguaiata che da anni domina la comunicazione. E’ un misto di parole gridate, di slogan vuoti ripetuti con ossessività da persecutori, di accuse e insulti – bugiardi, traditori, buffoni – equanimemente scambiati fra leader che il giorno dopo sembrano di nuovo amiconi.
Dico basta a questo neolinguaggio trasportato dai social come un fiume in piena, in cui ciascuno butta il suo sasso, senza pensare a cosa le parole, che sono cosa viva, generano.
Il microfono non serve più ma basta auto – inquadrarsi nello smartphone e dare fiato alle viscere – ritenendo così, di parlare al “popolo”. Popolo non inteso come l’insieme di un grande Paese ma invece una massa un po’ ignorante, popolino cresciuto a tv commerciale, pochi libri, un gratta e vinci in tasca per sperare, un cinismo che si allarga e contagia la vita comune. Siamo abituati da anni a toni tracotanti della politica ma il vertice delle aggressività si è toccato nei lunghi mesi del penultimo ibrido governo dove ogni giorno, volavano gli stracci, gli insulti e il disprezzo. Siamo alla fine di una bollente estate di straparole al vento, di petti nudi a evocare virilità, nonché altre patrie memorie, di tweet buoni per lanciarli al bar Sport credendo di gonfiare il consenso del “popolo”.
Dobbiamo ritrovarci dal tacito sfinimento che ci sommerge il frastuono dei tg, il modo, il tono, il rispetto con cui si parla all’altro, “perché la democrazia è soprattutto un problema di rapporti tra uomo e uomo” (Saragat). Un volto umano da ritrovare, anzi da insegnare a chi ha vent’anni e può credere che la politica non sia invece scontro tra falangi astiose e una gara a chi offende di più. Si deve scorgere non una schiuma di parole roboanti ma una volontà di bene, di vita, di costruzione comune, come sapevano quei padri costituenti trarre la speranza di un Paese nuovo.
Cordialità
Paolo Pagliani