Gentile direttore, la cronaca ci dice che di autoscatto estremo si muore, dalla Russia agli USA, un fenomeno che si sta silenziosamente allargando ovunque specie nei giovanissimi. Numeri che non fanno rumore e che si pensano siano i figli degli altri. E che sarebbe stupido e irresponsabile rubricare cinicamente alla voce <<morti stupide>>. Un’ indagine recente ha segnalato su un campione di 4.000 studenti che un adolescente italiano su dieci ha confessato di essersi fatto almeno un selfie in una situazione di oggettivo pericolo mettendo a repentaglio la propria integrità. Alcuni di loro hanno ammesso di averlo fatto per provare sensazioni forti, altri per sentirsi attraenti davanti agli amici, la stragrande maggioranza senza alcuna motivazione: si fa e basta. Non per essere quello che si è ma per essere quello che si posta. Vale il profilo più della persona; la vita passa in secondo piano e salvaguardarla, proteggerla, diventa quasi un dettaglio, un accessorio nella corsa ossessiva verso la condivisione social. Morire per un selfie significa morire per credere di vedersi vivi. Un paradosso che è un campanello d’ allarme per noi adulti, genitori, educatori, decisori politici, chiamati a capire realmente i bisogni delle nuove generazioni. Sempre che anche noi siamo troppo distratti dall’ ennesimo selfie.