di Alessandro Cagossi – ricercatore universitario
I paesi occidentali fanno riforme costituzionali per risolvere i problemi. Nel 1995 il Belgio ha abolito il bicameralismo perfetto (identici poteri in entrambe le camere) che creava, come in Italia, lungaggini del processo legislativo e maggioranze incerte; il Senato belga è stato quindi ridotto a rappresentante delle comunità locali, non vota più la fiducia al governo ed ha una partecipazione limitata al processo legislativo. In Germania, una revisione costituzionale del 2006 ha definito più nettamente le competenze legislative fra le due camere, ridimensionando ulteriormente le prerogative della Camera dei cantoni (Bundesrat, composta da amministratori locali) che non partecipa alla votazione sulla fiducia al governo. La Spagna dal 1978 dopo la dittatura franchista ha un sistema bicamerale in cui il Congresso ha preminenza sul Senato che non vota la fiducia al governo. La Francia per risolvere l’instabilità di governo nel dopoguerra (20 governi in 12 anni) nel 1958 si è data una forma costituzionale rivoluzionaria, il semipresidenzialismo: poteva essere un salto nel buio, invece ha risolto i problemi.
Al contrario, in fatto di riforme costituzionali l’Italia è un paese conservatore. L’unica riforma andata in porto fu quella del centrosinistra approvata col referendum del 2001 che devolveva più poteri agli enti locali. Tuttavia, ci sono stati quattro progetti organici di revisione radicale dell’ordinamento istituzionale della Repubblica. Tutti falliti. Basterà ricordare la bicamerale De Mita-Iotti (1993-1994) che, sull’onda di tangentopoli, propose senza successo un ordinamento di tipo tedesco. La bicamerale D’Alema-Berlusconi del 1997 proponeva una repubblica semipresidenziale e una legge elettorale a doppio turno in stile francese, ma fallì perché Berlusconi fece saltare il tavolo.
L’ex cavaliere nel 2006 propose una riforma bocciata dal referendum per aumentare in maniera sproporzionata i poteri del primo ministro che avrebbe potuto revocare i ministri (di solito prerogativa parlamentare); determinare l’attività dei ministeri (quindi governo non più collegiale ma di stampo presidenziale); sciogliere direttamente la Camera (un’aberrazione nei sistemi parlamentari, potere solitamente affidato al presidente della repubblica). Infine il premier sarebbe stato automaticamente nominato dal presidente della repubblica (derubricato a ruolo di “notaio”), in base a chi risultava candidato al momento delle elezioni.
Riforma Renzi-Boschi: una revisione limitata della costituzione. Entrando nel merito della riforma, per evitare i timori di una riforma troppo radicale come quelle fallimentari proposte nel passato si è optato per una revisione limitata della costituzione, andando a ridefinire il riassetto delle due camere in linea con quello che, come detto sopra, succede in tanti paesi occidentali. Le prerogative di governo, potere giudiziario e presidente della repubblica rimangono immutate, quindi chi paventa derive autoritarie dice sciocchezze. Ci si prefigge il superamento del bicameralismo perfetto, un problema atavico dell’Italia. La Camera rimane l’unico organo ad approvare la fiducia del governo ed esercita la funzione di controllo sull’operato del governo assieme a corte costituzionale e presidente della repubblica, mentre il Senato diventa rappresentativo delle istituzioni territoriali.
Riguardo alle leggi d’iniziativa popolare, da un lato il numero di firme necessario per la presentazione di un disegno di legge è aumentato da 50mila a 150mila, dall’altro il parlamento le deve discutere obbligatoriamente in tempi certi, a differenza di oggi in cui spesso le ignora. Relativamente ai referendum popolari abrogativi, se sono richiesti da almeno 800mila cittadini (invece che 500mila), come quorum si stabilisce non più il 50% +1 dei votanti (il cui raggiungimento ormai è una chimera) ma la metà dei votanti alle ultime elezioni politiche (nel 2013 votò il 75% degli aventi diritto, quindi il quorum per il referendum sarebbe un abbordabile 37,5% +1). Si combatte così l’arma dell’astensione che tanti governi hanno impugnato per far fallire svariati referendum abrogativi.
Votare SÌ! per non fare regali alle opposizioni. È palese che sia i protagonisti della storia politica recente (Berlusconi e Lega Nord) sia chi ambisce a esserne il prossimo interprete (Beppe Grillo, Casaleggio Associati e Movimento5Stelle), bocciano compatti la riforma per ragioni più strumentali che ideologiche. Rileva infatti che una forza sulla carta rivoluzionaria come il M5S si sia arroccata su posizioni ultraconservatrici dello status quo, ovviamente temendo la portata dirompente di un governo Pd che si può accreditare come riformatore in caso di vittoria al referendum.
E non sta certamente al M5S intimare la necessità di riforme condivise, siccome sulle riforme (e non solo) si sono chiamati fuori da qualsiasi collaborazione con gli altri partiti. La riforma si poteva fare con le destre, che però hanno fatto saltare il tavolo. In linea con la riforma Renzi-Boschi, avrebbe potuto essere proprio la Lega Nord a proporre il Senato delle Regioni quando governava, tuttavia seguì senza fortuna Berlusconi sul presidenzialismo. L’ex cavaliere, una volta tanto, è stato il più onesto: dice senza tanti giri di parole di votare no per abbattere Renzi. Per chi si riconosce nella sinistra, votare SÌ! significa approvare una riforma di stampo progressista, sempre che progressista significhi ancora qualcosa per la sinistra.